Democratica, autoritaria, carismatica, partecipativa. Nel corso degli anni si sono sprecate le teorie e le definizioni di leadership. Ecco alcuni spunti di riflessione per capire che tipo di leader sei e come si può migliorare
Che cos’è un leader? Quali sono i suoi compiti? E quali stili di leadership riescono a ottenere i risultati migliori? Sono alcuni degli interrogativi che ricercatori ed esperti di psicologia e organizzazione del lavoro si sono posti in decenni di studi accademici.
Perché se è vero che il carisma è una dote personale che può essere innata, studiando e analizzando caratteristiche e risultati dei vari tipi di leadership possiamo essere in grado di trarre il meglio da ogni profilo. Imparando di conseguenza.
È utile partire domandandoci cos’è un buon leader e cosa s'intende col termine leadership. Si può dire che un leader è una figura di riferimento per altre persone, un capo in grado di ispirare gli altri e guidarli verso l’ottenimento di risultati.
Un leader è uno che prende l’iniziativa, sicuro di sé, che per questo riesce a condurre un gruppo o una comunità verso nuovi orizzonti, facendo sì che un team lavori in una direzione ben definita.
Il termine leadership del resto deriva dal verbo inglese “to lead”, che significa guidare, condurre. Rientrano nel concetto di leadership dunque nozioni come l’autorità e l’autorevolezza, il fascino, il saper prendere decisioni, la conoscenza, ma anche la capacità di vedere lontano prima degli altri.
La leadership è la capacità di un individuo o di un gruppo di influenzare e guidare i collaboratori o gli altri membri di un’organizzazione. Facendolo in modo che i singoli gruppi di lavoro o tutta la società lavori in modo da raggiungere un obiettivo comune, che è differente dagli obiettivi dei singoli individui.
Il concetto di leadership è dunque strettamente collegato a quello di
gruppo
e di comunità, perché solo dal confronto e dall’azione comune di un gruppo di persone può emergere un lavoro di team.
L’azione di un leader nel mondo del lavoro ha ricadute dirette sulla qualità dell’ambiente di lavoro, sull’attività dei propri collaboratori e sull’attrattività di un’impresa rispetto alle altre. Può dunque influire sul turnover dei dipendenti, spingendone alcuni ad abbandonare l’azienda, nel caso di un clima pesante e oppressivo, o attirandone invece altri, richiamati dalla cultura aziendale espressa dalla figura del leader. La condotta e i risultati di un leader hanno anche ricadute dirette sulla reputazione dell’azienda.
Già da questi primi aspetti possono essere indicate alcune delle caratteristiche di un buon leader, che consenta ai suoi collaboratori di crescere professionalmente. Egli infatti deve:
Un leader poi, senza avere per forza uno stile autoritario, dev’essere anche in grado di suscitare rispetto, in modo da spingere gli altri a dare sempre il meglio di sé. È capace di analizzare la situazione dal suo punto di vista sapendo ascoltare gli altri, definire gli obiettivi e fare in modo di ottenerli affidando i compiti nel modo giusto a ognuno.
Le tipologie di leadership più spesso identificate da studiosi e commentatori sono in genere quattro:
Una delle distinzioni che torna più spesso nella bibliografia sulla leadership è quella tra un leader con stile democratico e un leader autoritario. Semplificando, si può dire che un leader autoritario:
Un leader autoritario nel suo ambiente di lavoro favorisce dunque la creazione e il mantenimento di un certo ordine, tenendo a freno così la nascita di conflitti, perché le regole sono fortemente guidate dall’alto.
Una leadership autoritaria può però rendere difficile l’emergere di idee nuove e tende a mantenere l’ambiente di lavoro stabile. È dunque più adatta alla gestione dei momenti di crisi, in cui bisogna prendere decisioni rapide senza troppe discussioni.
Un leader democratico invece:
Anche uno stile di leadership democratica ha però i suoi svantaggi, perché può portare a conflitti interni al gruppo o generare un certo caos.
È un modo di condurre una comunità o un’azienda che sembra essere più adatto ai periodi di “pace” aziendale e consente di ottenere soprattutto risultati a lungo termine.
Ma la distinzione tra stile autoritario o democratico di leadership non è la sola approfondita dagli studiosi. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta Robert Blake e Jane Mouton hanno costruito una “griglia manageriale” che mette sull’asse orizzontale l’interesse alla produzione, cioè l’attenzione all’efficacia, ai compiti e all’organizzazione. E sull’asse verticale l’interesse invece alle persone e quindi alle relazioni.
Assegnando da 1 a 9 punti in questi due ambiti gli studiosi arrivano a definire diversi stili di leadership:
Kenneth Blanchard e Paul Hersey hanno formulato la teoria del management situazionale, secondo cui ogni manager deve adattare il suo stile di leadership al contesto in cui opera e al livello di maturità dei collaboratori.
Semplificando, la teoria dice che di fronte a collaboratori con scarsa esperienza ma motivati, un leader dovrebbe prendere le decisioni da solo e imporre agli altri membri del suo team gli obiettivi da raggiungere. Egli deve dunque dirigere la squadra.
A collaboratori con una certa esperienza ma poco motivati e disponibili, il leader dovrebbe invece addestrare, riservando per sé le decisioni ma ascoltando in modo più accentuato le altre persone.
Con collaboratori esperti, ma che mancano di motivazione, il leader dovrebbe coinvolgere le persone lasciando però a loro parte del processo decisionale, perché i collaboratori sono in grado di lavorare da soli, ma hanno bisogno solo di una spinta.
Per membri del team esperti e motivati è utile invece uno stile di leadership che sappia delegare le decisioni.
Vero caposaldo delle teorie sulle leadership sono poi i sei stili individuati dallo psicologo e giornalista statunitense Daniel Goleman. Assieme a Richard Boyatzis e Annie Mc Kee, nel libro “Primal leadership” del 2002, definisce sei diversi modelli di leadership: