Gig economy, cos'è e le ultime tendenze

Kelly Services spa • giu 08, 2021

​L’economia dei “lavoretti” negli ultimi anni e con la pandemia ha guadagnato spazio sia nel mercato del lavoro che nel dibattito pubblico. Ma di cosa si tratta? Quali sono i pro e i contro di un sistema che usa piattaforme digitali per organizzare orari e obiettivi? Ecco quello che c’è da sapere e le ultime novità


Cosa vuol dire gig economy?


Col termine “gig economy” s’intende la cosiddetta economia dei lavoretti, quel sistema economico che non si basa su un “posto fisso” con un contratto ben delineato tipico dei lavoratori dipendenti e del lavoro subordinato ma su un lavoro a chiamata. Si differenzia però dal lavoro a chiamata tradizionale per il modo in cui è gestita l’organizzazione del lavoro, che avviene per lo più su piattaforme online.


L’esempio più conosciuto è quello degli autisti di Uber, che vengono gestiti attraverso una app, oppure i rider di aziende multinazionali come Deliveroo, Glovo o Foodora, che gestiscono le consegne a domicilio di ristoranti, negozi o altri tipi di attività commerciali tradizionali mettendo in contatto clienti e operatori. Ma sono “gig workers”, in un senso più ampio, anche baby sitter e insegnanti che fanno ripetizioni private.


Il termine “gig”, che significa ingaggio o lavoretto, sembra arrivare dalla musica jazz e da “engagement”, il termine con cui venivano indicati gli incarichi per i concerti dei musicisti, che riguardavano appunto spettacoli di una sola serata o per brevi periodi.


Questo tipo di rapporto di lavoro dunque, particolarmente diffuso negli Stati Uniti ma presente in tutto il mondo, non prevede nella maggior parte dei casi la firma di un contratto vero e proprio ma la registrazione sui portali informatici delle aziende.



Anche gli orari di lavoro non sono rigidamente fissati come per il lavoro in ufficio, ma determinati da una parte dalle necessità della piattaforma e del settore di riferimento e dall’altra dalla disponibilità della forza lavoro. Per questo i lavoratori “gig” vengono generalmente fatti ricadere all’interno della categoria del lavoro autonomo: anche se proprio questo inquadramento è al centro sia di contese legali che del dibattito pubblico.

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Quanto pesa il mercato dei “lavoretti”?


Non è facile quantificare il peso della gig economy rispetto all’economia tradizionale. La Brooking Institution in una ricerca del 2016 stima che il lavoro gig sia cresciuto rapidamente: le società di servizi taxi “non-datoriali”, per esempio, nelle città statunitensi sono aumentate del 69% contro il 17% delle aziende taxi tradizionali. Una ricerca del McKinsey Global Institute, sempre del 2016, stima in 162 milioni di persone impegnate nel “lavoro indipendente”, equivalenti al 20-30% della forza lavoro di Europa e Stati Uniti.


Come segnalato da Colin Crouch in “Se il lavoro si fa gig” la categoria di lavoro indipendente è però ben più ampia di quella del lavoro veramente “gig”, anche se le indicazioni di McKinsey sono interessanti per un altro motivo. Secondo l’istituto infatti ci sono diverse categorie di lavoratori indipendenti:


  • il 40% è un lavoratore occasionale, che dunque non ritiene che quell’impiego sia la sua attività definitiva;
  • un 30% sono “free agent”, cioè attori liberi che scelgono volontariamente di avere quel tipo di inquadramento;
  • un 14% sono “riluttanti”, cioè preferirebbero trovare un altro impiego più stabile;
  • un 16% è invece semplicemente costretto a lavorare in questo modo, per necessità economiche.


Già da queste prime indicazioni emerge dunque uno dei temi più dibattuti anche oggi: i lavoratori della gig economy hanno scelto di esserlo? Sono contenti di far parte di questa nuova tendenza dell’economia?


Quanto pesa in Italia il lavoro gig?


Per l’Italia il settore più indagato e discusso è sicuramente quello delle consegne a domicilio, con l’esplosione dei rider e le loro rivendicazioni. Una ricerca della Banca d’Italia del 2018 calcola che i rider italiani siano circa 8mila, di cui il 20% svolga anche un altro impiego e il 50% anche attività di studio. L’Inps, nel 2019, ne ha contati invece circa 11mila.



Stime più recenti delle società di settore indicano in circa 900 milioni di euro il giro d’affari del food delivery in Italia, quasi il doppio dell’anno precedente e il quadruplo del 2018. Mentre per quanto riguarda il numero dei fattorini un’indicazione arriva dalla recente indagine del tribunale di Milano, che impone alle società che operano in Italia l’assunzione diretta di circa 60mila lavoratori.

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Quali sono le opportunità del lavoro gig? E gli svantaggi?


Una ricerca dell’ILO, l’Organizzazione internazionale del lavoro, elenca opportunità e svantaggi del lavoro “gig”, specialmente quello organizzato tramite le piattaforme digitali.


Tra le opportunità elenca:


  • il miglioramento dell’incrocio tra domanda e offerta, facilitato dalle tecnologie digitali;
  • la riduzione dei costi di vendita;
  • l’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro, per i lavoratori;
  • la possibilità di trovare forza lavoro in modo molto flessibile e meno regolamentata.


Tra i rischi che una gig economy particolarmente spinta può avere invece ci sono:


  • una “deumanizzazione” del lavoro e dei lavoratori;
  • il trasferimento del rischio dall’impresa al lavoratore;
  • una flessibilità oraria fortemente diretta dall’azienda:
  • un’eccessiva capacità di controllo del datore di lavoro;
  • il ricorso a forme di pagamento a cottimo;
  • la mancanza di tutele sindacali.


Attorno a questi temi, anche in Italia, si è sviluppato un acceso dibattito sul “gig work” e sulla stessa natura di queste forme di lavoro: si tratta di impieghi veramente 
autonomi o di una nuova forma di lavoro subordinato che penalizza le molte persone interessate?


Nel corso degli ultimi anni ci sono state varie sentenze dei tribunali di tutto il mondo, e anche in Italia, che hanno definito volta per volta autonomo o dipendente questa tipologia di lavoro, costringendo in molti casi le aziende ad assumere direttamente i collaboratori.


L’impressione insomma è che la gig economy, nella sua nuova forma di “economia delle piattaforme”, dopo aver guadagnato ancora più importanza a causa della pandemia, sia a uno snodo cruciale della sua storia.

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